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Ricorre in questi giorni l’anniversario della nascita di Nino Manfredi, uno dei quattro colonnelli della commedia all’italiana.

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di Werner Altomare

Saturnino Manfredi, in arte Nino, era nato a Castro dei Volsci, paesino della ciociaria, in provincia di Frosinone, il 22 marzo 1921, primogenito dei due figli di Romeo Manfredi e di Antonina Perfili. Fabrizio Giusti su ilmamilio.it ci racconta che il padre, maresciallo di Pubblica Sicurezza, venne trasferito a Roma, dove Nino e il fratello Dante crebbero nel quartiere di San Giovanni. Dopo le scuole medie, si iscrisse al Collegio Santa Maria, da dove però scappò varie volte, finché fu costretto a proseguire gli studi da privatista. Nel 1937 si ammalò gravemente di tubercolosi e fu ricoverato in sanatorio. Qui Manfredi trascorse tre anni della sua adolescenza, imparò a suonare il banjo ed entrò nel complessino dell’ospedale. Dopo un’esibizione della compagnia teatrale di Vittorio De Sica, iniziò ad appassionarsi alla recitazione. La decisone di fare l’attore fu per lui una via di fuga, sospinto dal sacro fuoco dell’arte, utilizzò la risata per affrontare la vita ed esorcizzare la morte che, in quel luogo di sofferenza, aveva visto per troppi anni e che aveva sfiorato anche lui.

Nino si iscrisse all’Accademia di Arte Drammatica, non senza contasti con la sua famiglia: quando, infatti, il padre lo venne a sapere non ne fu particolarmente contento, il suo desiderio era che il figlio diventasse avvocato. Nino lo accontentò laureandosi in legge, senza, però, mai esercitare la professione, preferendo seguire da subito la sua strada. Era un artista che univa l’improvvisazione alla impostazione maniacale della parte. Nel costruire un personaggio si ispirava alla realtà che vedeva, con una gestualità esprimente un linguaggio che tutti potevano comprendere. Le espressioni, i movimenti, i tic patrimonio di esperienze comuni a tutti che lui riproponeva perfettamente. Questo gli ha consentito di interpretare personaggi variegati alla radio, in tv, al cinema, a teatro: l’emigrato in Svizzera di Pane e cioccolata, per esempio, per il quale gli fu riconosciuto il David di Donatello, il venditore abusivo di Cafè Express o il cameriere di Spaghetti House, che gli valse il Nastro d’Argento.

Indimenticabili le sue parti per il filone risorgimentale: Pasquino ne L’anno del Signore, Monsignor Colombo da Priverno ne In nome del Papa Re per entrambi i quali vinse sia il David di Donatello sia il Nastro d’Argento. Poi ancora Ciceruacchio ne In nome del popolo sovrano. Antonio di C’eravamo tanto amati, l’architetto Marco in Padre di Famiglia di Nanny Loy o ancora Titino in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?  In teatro, memorabile la prima edizione del Rugantino al fianco di Lea Massari, Aldo Fabrizi e Bice Valori successo straordinario che andò in tournée nel mondo fino a Broadway. Poi la Tv, che lo mise davanti ai milioni di telespettatori di Canzonissima del 1958 dove nacque il personaggio di “Bastiano, il barista di Ceccano”, la cui battuta tormentone ‘Fusse che fusse la vorta bbona’ entrò nel linguaggio comune. E come non ricordare il suo Geppetto nel Pinocchio di Luigi Comencini del 1972 quello con Andrea Balestri, Gina Lollobrigida fata turchina e Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nei panni del gatto e la volpe.

Si è guadagnato in oltre 50 anni di carriera, la stima dei colleghi e l’amore del pubblico che non lo ha mai dimenticato. È stato insignito delle onorificenze di Commendatore di Gran Croce e di Cavaliere della Repubblica. Al suo nome sono dedicati premi, vie, quartieri, centri culturali, persino un francobollo e addirittura un asteroide. La sua vita artistica e personale viene ripercorsa nel bellissimo documentario Uno, nessuno, cento Nino diretto dal figlio Luca Manfredi che si può guardare in questi giorni su Sky.


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